sabato 25 ottobre 2008

26 ottobre

Ottobre bastardo. Fino a ieri il sole scaldava ancora, stamattina l’aria frizza il cielo è terso e limpido come d’inverno e un altro anno è andato. Ieri... ieri era giugno.
Tutto il pomeriggio scalza a sciaguattare nell’acqua piovana che si era raccolta nel canale di scolo al bordo del marciapiede davanti alle case. Un marciapiede di sassi tondi legati con cemento che quando ci passava senza le scarpe doveva poggiare il piede attentamente per non sentire dolore. Poi era calato il sole, lentamente ma per lei troppo in fretta, come sempre. Adesso è sulla soglia, non vuole entrare, la cucina è buia, ristagna l’odore di fumo della stufa a legna spenta da ieri sera, odore di campagna, di mazzi di origano a seccare attaccati alle travi e serte di agli e collane di peperoncini.
Nonna sta in piedi sulla sedia le braccia distese sta girando la chiavetta della lampada a gas e con uno zolfanello accende il lume sospeso sulla tavola. La luce è calda, gialla, debole, le ombre pian piano si ritirano negli angoli della cucina, Nonna la chiama dentro, riluttante entra ma vorrebbe restare fuori, anche se ormai l’acqua stagnante s’è fatta fredda e non si distinguono più le case vicine, i panni stesi, i cespugli. Tutto è scuro, contorni neri che si stagliano in un orizzonte poco meno nero. Ora la porta è chiusa, sprangata, la stufa accesa con un minimo focherello per scaldare il latte della cena. L’odore è intenso, di vaccheria, di caldo, di fette pane messe sulla piastra della stufa per dimenticare che è raffermo. La bambina affronta la sua scodella con astio, non le piace mangiare è una perdita di tempo, tempo che ruba ai giochi, ai pensieri, ai sogni.
Lontano un cane abbaia, è il cane della Polveriera, il guardiano del guardiano; dall’altra parte della valle risponde il cane del Casale Rosso, un abbaio che muta in ululato, lungo e profondo. Più vicino, dal retro della casa, Lupa risponde con un latrato risentito.
Sono i Cani della Notte le dice la Nonna, si chiamano, si raccontano storie con i loro ululati, poi, quando tutti dormono, si raccolgono insieme e battono la campagna. I cani della notte hanno gli occhi rossi, occhi di fuoco, e quando sono in branco cercano prede, le dice Nonna, e se trovano un bambino fuori di casa lo prendono e lo portano nelle tane sottoterra, dove c’è un paese abitato da fate e streghe e da dove non si torna mai più. La bambina ascolta, il cucchiaio a mezz’aria, la bocca aperta, gli occhi sgranati.
L’eco degli abbai rimbalza per la vallata, a destra e sinistra lontano e vicino, non si chetano stanotte i cani. Nonna accende una candela e spegne la lampada a gas, in cucina solo un occhieggiare di braci dalla stufa accompagnano la bambina nella stanza accanto- Nonna la spoglia e la aiuta a salire sull’alto letto dal materasso rigido, le lenzuola fredde e umide, si spoglia a sua volta, infila la lunga camicia ed entra nel letto. La bambina le si rannicchia vicina, gli occhi spalancati nel buio ad aspettare fili di luce tra le fessure delle imposte, ad ascoltare le voci dei Cani della Notte.
Ieri era giugno, ieri il mondo era nuovo e le favole erano reali. Perché non sono uscita a cercare le tane dei cani della notte?
Oggi è ottobre, l’aria frizza e un altro anno se n’è andato, per sempre.

mercoledì 22 ottobre 2008

L'Incontro II



- Chi sei, Signore?
- Sono un Guardiano.
- Io ti conosco, ti ho già visto nel sogno. Sei venuto quando ero in quella cella... Tu mi hai liberato.
- Oltre la Barriera i miei poteri sono limitati. Ti ho aperto la porta ma tu dovevi fare il resto.


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La donna era raggomitolata a terra come una palla di stracci, stracci sporchi di sangue rappreso, di polvere impastata di urina e fili di paglia. Sulle pietre mal sgrossate del pavimento uno strato di pietruzze le penetrava la carne e aumentava il martirio della poveretta. La cella era al buio, solo un vago chiarore indicava in alto un pozzo per la presa d'aria che sbucava nel cortile.
Il giorno precedente l'avevano prelevata, due omaccioni dal fiato puzzolente di cipolle mal digerite, e senza tanti complimenti portata nella sala dove l'aspettava l'Inquisitore. La stanza era grande, muri di pietra costruiti da pochi anni ma era già fredda e carica di dolore. Non era lei la prima a passare per quella camera. L'Inquisitore sedeva ad un tavolo di legno, scuro in viso, quel viso che lei aveva adorato, cercato con gli occhi ogni volta che veniva aperta la porta del Palazzo e i signori uscivano per la caccia o per qualsiasi altra cerimonia, per un rogo o una punizione pubblica. Accanto a lui il segretario pronto con le sue carte a trascrivere ogni parola che sarebbe stata detta le aveva lanciato un rapido sguardo di compassione e distolto immediatamente gli occhi. Il boia e il suo aiutante le avevano mostrato i ferri e la frusta: volevano la sua 'spontanea confessione' del crimine commesso.


- Figliola, noi siamo qui per permetterti di confessare i tuoi molti crimini, per punirti e riammetterti nella comunità, noi vogliamo liberare la tua anima dal male e dalle eresie che la infestano.
- Io non so di cosa parlate Monsignore, non ho fatto niente io - protestò singhiozzando la donna con la voce impastata.
- Sei la donna che viene chiamata strega? Neghi forse di esserti vantata di questo nome per tutta la contrada? -
- Mi chiamano così ma non ho mai fatto stregherie di nessun genere - urlò la donna - sono una buona cristiana e ho sempre fatto del bene a tutti. - continuò con voce più bassa.
L'inquisitore girò il viso verso il segretario che, la lingua stretta trai i denti per la concentrazione cercava di scrivere parola per parola il dialogo tra i due e rassicurato dall'impegno dell'uomo si volse al boia - Mostrate i ferri all'imputata - disse, e poi alla donna - ti verranno mostrati gli strumenti che ti libereranno dei tuoi peccati e se non confesserai verranno usati su di te.
La seduta era continuata per un pezzo e quando l'avevano riportata nella cella lei era una palla pulsante dolore ma non aveva confessato quello che non aveva mai fatto.
Ora mentre gradualmente la debole luce si affievoliva sempre di più e l'aria si faceva gelida all'avvicinarsi della notte un torpore innaturale si diffuse nelle sue membra doloranti e i suoi pensieri divennero sempre più confusi come se una nebbia scura le avvolgesse la mente.
Di fronte a lei, in un tenue bagliore azzurro, prese forma l'immagine di un una persona avvolta in un mantello scuro, il volto nascosto dal cappuccio, che tremolava come una fiamma ad ogni suo respiro.
L'uomo, se era un uomo, ristette a lungo senza un movimento, senza una parola, figura che a tratti si confondeva con le ombre della cella e che dall'ombra osservava e leggeva nel cuore della prigioniera.
Lei sentiva vagamente che qualcosa la stava analizzando, scavando nei suoi ricordi, nei suoi pensieri, ma era un tocco talmente leggero e lei talmente stremata che accettava senza ribellarsi quella invasione. Dopo un tempo che non seppe valutare e che le sembrò infinito la figura ammantata si volse verso la porta e con il gesto della mano fece scattare la serratura. La porta cigolando si aprì di uno spiraglio e mentre lei guardava sorpresa il prodigio l'uomo svanì e con lui l'abbandonò il torpore che l'aveva legata. Si tirò sulle ginocchia, in piedi, aprì completamente la porta e vide i carcerieri addormentati, la testa sul tavolo, i boccali di vino ancora pieni e le chiavi delle altre grate attaccate ad un chiodo. L'uomo le aveva aperto la via della fuga.



Su gentile richiesta di Darkyo ho messo l'antefatto.